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SIVE DEUS SIVE DEA

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Caratteristica della Religione Romana è l'impostazione contrattuale che il rapporto tra uomini e Dèi spesso assume. Non bisogna pensare ad una contrattualità gretta, quella che normalmente si descrive con la formula do ut des, ti do affinché tu mi dia, che oltretutto è scorretta perché la maggior parte dei rituali romani andrebbe piuttosto descritta con la formula inversa da ut dem, dammi affinché io ti dia. La contrattualità della Religione Romana mira invece a fissare i termini del rapporto tra due esseri senzienti, per soddisfazione reciproca, e come i contratti tra uomini richiede correttezza nella forma in cui si stipula il contratto, chiarezza e rispetto dei termini e include talvolta la possibilità di rinegoziare l'accordo o comunque una certa libertà di manovra all'interno dei suoi termini. L'esempio è Numa, al quale Giove richiede delle teste, che sacrifica al dio teste di cipolla.

Un contratto non può prescindere dall'individuazione specifica dei contraenti. Non è detto però che l'uomo sappia chi sia il dio con il quale va a trattare e per questo la Religione Romana prevede delle formule che ampliano la sfera d'azione del contratto. Una di queste è la formula sive deus, sive dea oppure si deus si dea (arcaico: si divus si diva) o ancora sive mas sive foemina, usata per riferirsi ad una divinità individuata per la sua funzione, per il legame ad un luogo o ancora per il fenomeno attraverso cui si manifesta, ma di cui non si sa o per qualche motivo non si vuole pronunciare il nome proprio che consentirebbe di riconoscerla come Dio o come Dea. Oltretutto, le religioni antiche politeiste erano consapevoli del fatto che il nome di una divinità è una convenzione umana, un modo con cui gli uomini chiamano la tale potenza numinosa: lo provano l'istituto dell'interpretatio e diversi brani di autori antichi, ad esempio i versi dell'Agamennone di Eschilo "Zeus, quale mai sia il tuo nome, se con questo ti piace esser chiamato, con questo t'invoco" [Eschilo, Agamennone, vv.160-161 trad. Manara Valgimigli in Id., Tutte le tragedie, Roma, Newton, 1991]. Nella Religione Romana esempi simili ai versi di Eschilo ci sono riportati da Macrobio, Servio e Apuleio, oltre alle iscrizioni epigrafiche.

La formula sive deus sive dea nelle sue molteplici varianti è rinvenuta innanzitutto nelle iscrizioni epigrafiche; è stato ipotizzato che la formula venisse usata come formula rituale in qualche caso anche nonostante la divinità in questione fosse in realtà conosciuta, ad esempio nell'invocazione al nume tutelare di una città che i Romani si apprestavano a conquistare. E' l'ipotesi che fa Jaime Alvar nel suo articolo su Numen (v. riferimenti a fine articolo), sostenendo che non fosse possibile che il generale non conoscesse il nome della divinità protettrice della città; ma potremmo anche pensare che invece la formula fosse usata in ogni caso coscientemente, per tutelare il contratto da possibili "cavilli" quali errori nell'identificazione dell'altro contraente: e se la divinità protettrice della città rivale non fosse stata individuata correttamente, nel suo nome o nella sua natura? Ecco che allora la formula ambigua permetteva di limitare gli errori di esecuzione e rendere comunque efficace il contratto. Le testimonianze di Tito Livio (Ab urbe condita, VIII, 26,4) e Macrobio (Saturnalia, III, 9) potrebbero deporre a favore di questa seconda ipotesi. Tito Livio racconta dell'uso della formula da parte del tribuno militare Marco Valerio Massimo, in guerra contro i Galli, per ringraziare la divinità che aveva manifestato il suo favore inviando un corvo in suo aiuto in un duello. Marco Valerio, che in seguito per questo assunse il cognome Corvo, avrebbe potuto ringraziare Marte, sia per il contesto bellico sia per interpretatio romana, cioè traduzione, della divinità protettrice dei Galli, ma optò invece per la formula ambivalente. Macrobio invece racconta l'evocatio della divinità protettrice di Cartagine da parte del console Furio: a quell'epoca, Roma aveva contatti con Cartagine da molto tempo ed è improbabile che non conoscesse nulla delle divinità locali. Roma stessa teneva nascosto il nome della propria divinità tutelare e Servio parla di un Genio della città di Roma "siue mas siue femina" (Commentari all'Eneide, II, 351), affinché l'evocatio non potesse essere usata contro di lei.

Nel pantheon romano ci sono anche divinità il cui sesso non è ben definito, come Robigo o Pale, ma la formula di cui ci occupiamo qui non ha a che vedere con questa ambiguità, anche se alcuni apologeti, come Arnobio, hanno tentato di mettere in connessione le due cose per screditare la religione romana, o perché attribuisce un sesso a qualcosa che non dovrebbe avere corpo, come una divinità, o perché non definisce a sufficienza i propri dei. Il fatto che la formula potesse essere usata per rivolgersi ad una divinità tutelare di un luogo o collegata ad un certo fenomeno, (ad esempio un terremoto, come in un passo di Aulo Gellio, Noctes Atticae, II, 28), ci dice però che la religione romana non è affatto a compartimenti stagni come ci fanno credere certe semplificazioni che vorrebbero Diana dea dei boschi, Nettuno dio del mare e dei terremoti sul modello del Poseidone greco e così via. L'individuazione categorica del dio o della dea "di..." è per l'appunto una semplificazione portata dal modello monoteista che è seguito alle religioni antiche precristiane: nelle religioni politeiste più divinità potevano manifestarsi in un certo luogo o attraverso fenomeni simili.

L'origine della formula sive deus sive dea non è certa, come quella del rituale dell'evocatio che è uno dei contesti principali del suo utilizzo; per l'evocatio si è ipotizzata sia un'origine etrusca che un'origine indoeuropea (quest'ultima ipotizzata da Basanoff e Dumezil, sulla scorta del fatto che anche gli Ittiti pare avessero un rituale simile). E' attestata a Roma dal IV secolo a.e.v., all'epoca della presa di Veio, fino all'inizio del IV secolo e.v.; ovviamente l'uso potrebbe essere più esteso rispetto a tali limiti temporali che fanno riferimento alla comparsa della formula in testi scritti, letterari (che magari raccontano episodi in cui sarebbe stata usata) o epigrafici.

Al di là del suo uso nell'evocatio, la formula sive deus sive dea è impiegata nelle dediche di luoghi, come testimonia Catone relativamente alla messa a coltura di un bosco. La funzione pare essere la stessa in entrambi i casi: il richiamo ad una divinità affinché abbandoni la sua abituale dimora e si trasferisca presso chi la invoca. La dimora abbandonata del dio è desacralizzata nel senso letterale della parola, dove sacer, sacro, sta per separato: un luogo desacralizzato non è più separato dai luoghi umani che lo circondano e può quindi essere utilizzato, sia che si tratti di un'area boschiva da mettere a coltura, sia che si tratti di una città da conquistare. Altri due contesti in cui troviamo utilizzata la formula sono i voti e l'appello ad una divinità che manifesta sé stessa attraverso un fenomeno naturale.

Tutti questi impieghi della formula in questione hanno in comune la necessità di mettersi in relazione non con una figura divina come definita dal racconto umano, cioè per il suo nome o per i miti che la riguardano, ma con una divinità presente nel mondo circostante e che attraverso questo interagisce con l'uomo. Una divinità che agisce, quindi, e che in quanto tale può essere soggetto di un rapporto religiosamente, cioè rispettosamente, secondo l'etimologia della parola religione, determinato. Non quindi una manifestazione di incertezza o di timore reverenziale, come vorrebbero alcuni apologeti monoteisti di ieri e di oggi, ma piuttosto una formula giuridica per stabilire, determinare o contrattare un rapporto e per questo espressione di uno dei pilastri della Religione Romana antica.

Riferimenti

Manuela Simeoni

 

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